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Otto mesi e un balcone

Non accadde tutto in un giorno.
Non ci fu una data precisa, un fatto scatenante, un evento da appuntare nel calendario con la penna rossa.
Semplicemente, iniziò a rimanere a letto.

All’inizio fu una mattina. Poi due. Poi una settimana.
Poi il tempo si fece nebbia.

Il mondo continuava a girare: le figlie andavano a scuola, il marito usciva per andare al lavoro, la spesa si faceva – l’aiutavano i suoi –, i pranzi comunque arrivavano – ci pensavano i parenti di lui.
Lei, invece, restava tra le lenzuola, vestita con lo stesso pigiama, con i capelli raccolti in una coda che, piano piano, perse forma, coerenza e scopo.

Parlava poco, e solo se necessario.
Non si lavava quasi più.
Non accendeva la tv. Non leggeva. Usava poco il cellulare.
Non chiedeva. Non piangeva.

Non c’era dolore visibile sul suo volto, né rabbia.
Era come se una stanchezza enorme, ancestrale, le avesse occupato le ossa; come se il solo fatto di esistere le fosse diventato estraneo. Ingiusto. Faticoso. Inutile.

Il marito le lasciava ogni mattina un bicchiere d’acqua sul comodino, accanto alla sveglia che non suonava più.
A volte lo beveva. A volte no.

Le figlie, ogni mattina e prima di andare a scuola, entravano piano in camera. Le lasciavano un bacio sulla fronte e una carezza lieve, come per ricordarle che il mondo fuori c’era ancora, e che loro erano lì.
Ma lei non rispondeva. E loro impararono a non aspettare nulla.

La casa mutava lentamente: il disordine cresceva, le piante ingiallivano, le stanze prendevano un odore nuovo, impastato di chiuso e silenzio.

Lei ascoltava i rumori: il passaggio delle auto sulla tangenziale, la lavatrice che qualcuno in casa aveva fatto partire, lo scatto della porta d’ingresso. Ogni cosa continuava, come se nulla fosse. Anche senza di lei.

Fu in una di quelle mattine di inizio marzo, grigia e anonima come le altre, che si alzò da quel letto che ormai aveva preso la sua forma.

Non disse nulla. Attraversò il corridoio a piedi nudi, spalancò la finestra del soggiorno e uscì sul balcone. Sedette sulla ringhiera, secondo piano.
Guardò in basso. Non per osservare ma per scomparire.

Aveva le mani fredde e il viso scavato dai tanti chili persi mentre lo sguardo era assente.
Niente pathos. Nessuna scena. Solo stanchezza.

Un giorno, anni prima, lì sullo stesso balcone, aveva tenuto in braccio la figlia più piccola e insieme avevano salutato un uccellino fermo a rosicchiare briciole.
Quel ricordo le tornò alla mente all’improvviso, come un fotogramma sbiadito.
Poi una voce, dietro di lei.

«Mamma.»

Era la figlia maggiore. Era rimasta a casa quella mattina – non si sa per quale ragione.
La vide lì, ferma e pronta.

Fu brava: non urlò, non pianse. Fece solo una cosa: corse e la afferrò.

Con delicatezza e con fermezza.
La riportò dentro quella stanza scomposta, ormai diventata il suo mondo.
E lì, la madre pianse. Finalmente.

Non fu un risveglio nemmeno una guarigione.
Fu un centimetro quasi un’incrinatura nel vetro.

Da quel giorno, la donna cominciò a fare piccole cose: si lavò i denti, si sciolse la coda, bevve il caffè seduta. Tornò a cucinare qualcosa, anche se semplice, cominciò a sistemare i cassetti.
Una sera chiese alle figlie cosa volessero per cena.
Il giorno dopo aprì tutte le finestre.
Poi comprò una pianta e la mise sul balcone. Su quel balcone. Proprio lì in quel punto.

Il marito – che per tutti quei mesi aveva speso ogni risparmio in medici, specialisti e consulti – non aveva mai smesso di crederci.
Aveva rischiato il posto di lavoro, ma non si era arreso.

«Non ha nulla», avevano detto tutti.
E avevano ragione, non aveva nulla, aveva solo smesso.
Di vivere. Di reagire. Di sentire.

Ora, lentamente, sta ricominciando.
Non tutto insieme.
Ma un passo alla volta. Poi un altro.

Ha ricominciato a rispondere al telefono.
A stendere il bucato, a comprare il pane.

La settimana scorsa ha riaperto il computer, ha letto una mail di lavoro, non ha risposto ma l’ha letta.
Ieri dopo la doccia ha messo un po’ di profumo.

E oggi, mentre lavava i piatti, ha canticchiato.
Sottovoce. Come se avesse paura di farsi scoprire.
Ma quella voce era la sua.
Ed era viva.

Elena

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