C’è una cosa che colpisce subito leggendo L’incredibile storia di Callista Wood che morì otto volte di Manuela Montanaro in libreria per la casa editrice Neo. Edizioni: l’autrice, che vive nel sud Italia, in provincia di Bari, non ha mai vissuto nel South Dakota, eppure lo racconta come se lo avesse sognato per tutta la vita.
Keystone, la riserva indiana, il bar di Lenny, la casa nel bosco: tutto ha una concretezza ruvida, una coerenza geografica, climatica e umana che sorprende e disarma.
Non credo sia semplice mimetismo letterario. Non credo neanche sola documentazione. A mio avviso, si tratta di qualcosa di più profondo che potremmo chiamare “espatrio narrativo consapevole”: la capacità di una scrittrice di abitare un altrove con autenticità, senza travestirsi da americana, ma portando sé stessa dentro una geografia emotiva altra.
Manuela Montanaro non ha la presunzione di “essere del posto”. Non tenta di forzare la parlata, né indulge nell’esotismo. Invece, incarna l’altrove come luogo simbolico del dolore, della colpa, dell’isolamento, temi universali che lei – da donna del sud e quindi da osservatrice lucida del disagio – sa restituire con forza.
Nel suo South Dakota non c’è il mito del selvaggio West, ma l’eco delle province silenziose e rimosse del mondo interiore, quelle che chiunque, anche a migliaia di chilometri di distanza, può riconoscere.
Non è un caso che i temi centrali del romanzo – la violenza sistemica, il silenzio delle comunità, la rimozione della colpa, la marginalizzazione del femminile – siano perfettamente adattabili a tanti contesti del sud Italia.
Forse, proprio da questo scarto nasce la forza del romanzo: parlare del lontano per far vibrare il vicino. Usare la distanza geografica per illuminare un’intimità che ci riguarda da vicino.
Si potrebbe concludere dicendo che in un momento storico in cui molti autori sono ossessionati dall’autobiografismo o dal localismo, Manuela compie un gesto raro e coraggioso: scrivere ciò che non si è vissuto, ma si è profondamente ascoltato.
Ed è proprio lì che si riconosce la buona letteratura: nella capacità di varcare il confine tra ciò che si sa e ciò che si sente.