La Santa dei Piccoli Favori
Marta era stata canonizzata santa da bambina, senza saperlo. Un giorno, all’asilo, aveva prestato il suo pennarello rosa a una compagna e la maestra l’aveva lodata così enfaticamente che Marta aveva capito una cosa fondamentale: la sua missione nella vita era essere utile agli altri. Sempre. A qualunque costo.
A trent’anni, Marta era diventata l’equivalente umano di un centralino multiservizi. Bastava comporre il suo numero e lei rispondeva con un “Certo, nessun problema” prima ancora di sapere cosa le stesse per essere chiesto.
La sua agenda era un campo minato di favori. Lunedì: aiutare la vicina a portare giù otto sacchi di vestiti usati che magari qualcuno, in qualche universo parallelo, avrebbe potuto voler indossare. Martedì: accompagnare la collega a comprare un regalo per il fidanzato che l’aveva lasciata tre volte nell’ultimo mese. Mercoledì: fare da babysitter al bambino dell’amica che doveva assolutamente andare a un aperitivo con persone che detestava.
Il suo appartamento era diventato la dependance non ufficiale dei suoi amici. C’era sempre qualcuno che dormiva sul suo divano dopo una lite col coinquilino, o che usava la sua cucina per preparare una torta a sorpresa (lasciando a Marta il compito di pulire la farina dal soffitto).
“Sei così brava a organizzare”, le dicevano, consegnandole l’incarico di pianificare la festa di compleanno del cugino di terzo grado.
“Tu sì che sai ascoltare”, sospiravano, lanciandosi in monologhi di quattro ore sui loro problemi esistenziali, per poi guardare l’orologio e scappare quando Marta accennava alle sue preoccupazioni.
Una mattina, Marta riceve tre messaggi prima ancora di aver aperto gli occhi: “Mi presti la tua macchina? La mia è dal meccanico.” “Puoi badare al mio cane questo weekend? È improvvisamente morta mia zia… in Liguria.” “Ti dispiace se uso il tuo account Netflix? Prometto che creerò un profilo a parte.”
Marta sospirò. Si preparò un caffè così forte che avrebbe potuto sciogliere un cucchiaio di plastica. Poi fece una cosa rivoluzionaria: spegneere il telefono.
Nel pomeriggio, qualcuno suonò alla sua porta. Era Marco, il suo vicino di casa, preoccupato perché Manta non rispondeva al telefono.
“Tutto bene, Marta? Dovevi aiutarmi a montare la libreria dell’IKEA, ricordi?”.
“Oh, sì,” disse Marta con un sorriso palesemente finto. “Ho avuto un imprevisto. Mi si è spezzata la spina dorsale a forza di piegarmi per tutti.”
Marco la guarda confusa. “Quindi… per la libreria?”.
“Hai provato a leggere le istruzioni?” chiese Marta, appoggiandosi allo stipite della porta.
“Le istruzioni?” ripeté Marco, come se gli avesse suggerito di costruire una navicella spaziale con materiali di riciclo.
“Sì, quelle cose con i disegnini e le frecce. Di solito sono nella scatola”.
“Ma tu sei così brava con queste cose…”.
“Lo so,” disse Marta. “Sono brava in molte cose. Ad esempio, sono bravissima a dire di no. Guarda, no. No.”
E chiuse la porta.
Il telefono di Marta rimase spento per tre giorni. Quando finalmente lo riaccese, trovò 47 messaggi, 23 chiamate perse e un’e-mail con oggetto “Sei morta?”.
Nessuno, però, le aveva chiesto come stava.
La settimana successiva, Marta iniziò a usare una parola che non aveva mai fatto parte del suo vocabolario: “No”.
“No, non posso tenerti il gatto per due settimane.” “No, non ti presto il mio vestito nuovo.” “No, non ti faccio da autista quando esci a bere.”
Fu sorprendente: il mondo non crollò. Anzi, scoprì che le persone trovavano soluzioni alternative. Alcuni se ne andarono, confusi da questa nuova versione di Marta che non era un bancomat di favori a disposizione 24/7. Altri rimasero, scoprendo che esisteva un concetto chiamato “reciprocità”.
Un mese dopo, mentre sistemava i fiori sul suo balcone – un’attività che faceva per sé, non per gli altri – Marta rifletteva sull’ironia della situazione: aveva passato anni a cercare gratitudine, ottenendo in cambio sempre più richieste. Solo quando aveva smesso di chiederla, alcune persone avevano cominciato ad apprezzarla davvero.
E se qualcuno le chiedeva perché fosse cambiata, rispondeva semplicemente: “Ho finalmente capito che essere indispensabile per tutti significa non essere importante per nessuno.” Poi sorrideva, versandosi un altro caffè nella sua tazza preferita – quella che, per una volta, non aveva prestato a nessuno.
[racconto di Rossella]