Il libro di Andrea Bajani, L’anniversario (in libreria per Feltrinelli editore) è un libro autentico: un libro fatto di silenzi, mezze verità e rimozioni che generano una geografia sentimentale di distanze affettive più che di prossimità reali. I legami familiari lucidamente descritti, nonostante tutto (nonostante tutto), appaiono come terreni minatati, dove l’amore (o qualcosa di simile) si intreccia costantemente con la sofferenza, con il ricordo, con l’immobilità, con il pentimento. La scrittura è essenziale, a volte spietata, capace di restituire con poche parole un’intera gamma di emozioni.
Mentre leggevo le domande che mi rivolgevo erano due, banali ma essenziali: un padre può non accorgersi del male che procura? Sì, se vive nella convinzione che il proprio ruolo sia indiscutibile, se è prigioniero di un modello di autorità che non lascia spazio all’autoriflessione. Spesso il potere, anche in una dimensione familiare, viene esercitato senza consapevolezza, come qualcosa di automatico. E chi lo subisce interiorizza il dolore senza che venga riconosciuto. E poi: un figlio davvero può mettersi a nudo così? Forse il suo mettersi a nudo è un atto estremo, quasi una violenza su di sé o più semplicemente l’unico modo possibile per liberarsi da ciò che lo ha oppresso. E quindi scrivere diventa un processo di rimozione consapevole non per dimenticare, ma per riscrivere il passato in una forma che finalmente possa essere guardata senza soccombere.
Ci sarebbe da parlare moltissimo anche e soprattutto sul dolore e sulla possibilità di catarsi (riuscita?) del libro. Ma sarebbero mie parole. Forse sarebbe meglio leggere le parole di Bajani, la sua resa dei conti definitiva senza clamore, senza vendetta. Una resa dei conti intima, chirurgica, fatta di parole che scavano invece di gridare.