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Negli ultimi anni sono sempre di più gli scrittori e le scrittrici italianə che sembrano aver percepito un’urgenza ormai impossibile da rimandare: raccontare la propria fragilità mentale, nominarla, toglierle vergogna rendendola finalmente pubblica.
I primi titoli che mi tornano alla mente – letti e molto apprezzati – sono le storie di Daniele Mencarelli e il suo internamento durante un tso; la ricostruzione del sé dopo un tentato suicidio di Fuani Marino; le derive percettive e il difficoltoso “stare al mondo” narrati da Alcide Pierantozzi; la barca alla deriva di Stefano Dionisi e chissà quanti altri ancora – a breve arriverà il libro di Fabio Macaluso di cui in questi giorni circolano recensioni particolarmente significative.
In questo territorio incandescente si inserisce anche “Lunatica” di Alessandra Arachi, che porta un’altra voce, un altro sguardo in bilico, un’altra storia che chiede ascolto prima ancora che interpretazione.
Il filo conduttore è evidente: non siamo di fronte alla classica narrazione lineare della caduta e dell’eventuale guarigione ma alla rappresentazione di un vissuto che sfida la logica del racconto tradizionale. Perché la malattia mentale, il disagio psichico non è sfondo né incidente narrativo: diventa lente, metafora dell’esistenza stessa.
Forse è proprio qui che questi libri trovano la loro forza: mostrare che la fragilità non è un’eccezione né tanto meno una deviazione, ma una delle forme possibili della nostra esperienza.
“Lunatica”, come molti dei testi che l’hanno preceduta (sperando che altri ancora ci saranno), ci ricorda che raccontare la mente quando vacilla non significa esporre una debolezza ma illuminare una zona dell’esistenza che riguarda tutti (anche quando preferiamo non guardarla).
In questo senso la letteratura continua a fare ciò che sa fare meglio: restituire dignità a ciò che resterebbe nell’ombra.

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