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[Quando mia figlia sarà grande, il tempo e la verità avranno trasformato i sassi in vento, le leggende di famiglia in parole elastiche, e il dolore sarà diventato innocuo].

C’è un nodo che attraversa le generazioni, un filo invisibile che lega le madri alle figlie, le parole dette a quelle taciute, volontariamente o meno. Quello che so di te, il romanzo di Nadia Terranova arrivato secondo al Premio Strega di quest’anno e pubblicato da Guanda, è un’opera che si muove tra memoria, silenzio e parola, scandagliando la storia familiare dell’autrice come un paesaggio interiore fatto di memorie incagliate e ricostruzioni parziali.

Al centro del romanzo c’è Venera, la bisnonna internata per un periodo nel Mandalari, il manicomio di Messina. La sua storia, frammentaria e rimossa dalla memoria familiare, torna potente attraverso la scrittura, diventando oggetto di una ricerca personale della protagonista, ora madre, che sente l’urgenza di rintracciare la verità e di interrompere la ripetizione del trauma familiare. Terranova costruisce il racconto con uno stile lirico e frammentario, alternando documenti, memorie, ricostruzioni e riflessioni, in un percorso che rende la scrittura un atto di cura e di giustizia affettiva. La parola diventa così uno strumento per accogliere l’assenza, dare voce agli esclusi e rielaborare il dolore trasmesso tra generazioni.

Questa lettura, insieme al precedente libro di Valentina Furlanetto, Cento giorni che non torno. Storie di pazzia, di ribellione, di verità per Laterza editore, ha stimolato in me una serie di riflessioni sulle storie dei miei antenati, spesso taciute o non ricordate come avrei desiderato, e sull’impatto che questi frammenti di passato hanno avuto su di me. Qui si collega in maniera naturale il tema delle costellazioni familiari di Bert Hellinger, secondo cui traumi, esclusioni o silenzi non elaborati possono trasmettersi inconsciamente tra generazioni, influenzando comportamenti, emozioni e scelte dei discendenti. La mia esperienza di lettura ha reso chiaro quanto il gesto della scrittura – o la consapevolezza delle proprie radici e silenzi familiari – possa diventare uno strumento per ricomporre nodi invisibili, dare voce a chi è stato escluso e ristabilire un equilibrio tra passato e presente.

In questo senso, Quello che so di te non è solo un romanzo sulla storia di una famiglia o sulla follia di una donna dimenticata: è un invito a interrogare la memoria, a parlare dei silenzi e a riconoscere le eredità invisibili, con un gesto che è insieme letterario, emotivo e sistemico.

Consigliato.

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